Urban Section

Mostra personale di Piero Mollica

Galleria Riccardo Costantini, Torino - 18/06/2015 - 15/09/2015

Nei percorsi visivi di Piero Mollica l’architettura esercita una sorta d’ipnosi ammaliante che, dopo avere attratto lo sguardo nell’abbraccio artificiale delle sue algide geometrie, si trasforma in un’aspirazione formale ansiosa di frammentare lo spazio urbano per poi ricomporlo in una sfaccettata armonia.

Nelle sezioni che l’obiettivo opera sul contesto urbano per confinarle entro i bordi della fotografia, l’architettura perde la sua interezza e, con essa, la dimensione dell’abitare e della misura umana rinascimentale. I giochi combinatori delle forme si appianano, strappando al paesaggio lo strato più superficiale. Nella ricerca di Piero Mollica, lo strumento fotografico possiede quello stesso potere che gli antichi filosofi atomisti attribuivano all’occhio, vale a dire la capacità di intercettare il primo velo iconico staccatosi dagli oggetti per offrirlo alla conoscenza sensibile. È in tal senso che essa si assume il compito di una “estetizzazione dell’architettura”, traendo il suo significato dalla radice etimologica del termine, che nel greco antico aisthesis indicava la percezione sensibile.

Con spiccato acume visivo, purificato dalla contaminazione con gli altri sensi, egli coglie la natura essenziale dell’architettura contemporanea carpendone gli angoli, le curvature, la materialità delle superfici, tra cemento e vetri specchianti che oppongono un solido ostacolo all’ispezione visiva. In questi stacchi d’affresco ottici la vocazione è quindi epidermica, ogni composizione delle parti viene fissata sul piano verticale coincidente con il supporto stampato. A ciò contribuisce la scelta del mezzo fotografico che, oltre a comprimere i volumi sulla superficie fotosensibile, riesce a restituire la luce quando questa incontra resistenze opache, piani ciechi che non si lasciano attraversare in profondità, producendo così scaglie d’ombra complementari. Se la trasparenza del vetro lascia a volte spaziare lo sguardo su vedute più distanti, la fotografia riconduce anch’esse ad una natura piana. Ed è qui, in una sorta di metafisica bidimensionale, nel mondo affilato di figure sottili come carte da gioco, che i frammenti s’intrecciano e allineano per ordinare nuovi accordi. L’inquadratura seziona gli edifici e li rimonta incessantemente in costruzioni arbitrarie che cancellano la reale funzione dei luoghi.

Nonostante le note tecniche di manipolazione digitale dell’immagine, persiste, nella visione collettiva, una fiducia inconscia nei confronti dell’oggettività della macchina, cui viene attribuito un potere di certificazione della verità sul reale. Ci s’inganna molto facilmente sulla capacità della ripresa meccanica di raccontare la verità, proprio perché il meccanico dovrebbe essere esente dalle elaborazioni soggettive. Per questo la macchina fotografica può diventare oggi lo strumento più illusorio, in virtù del tradimento subliminale di quella fiducia che l’occhio vi ripone. Lo dimostrano gli interventi cui, sempre più spesso, le immagini sono sottoposte prima di essere offerte alla ribalta pubblica.

La sfida diventa, allora, quella di non ingannare l’occhio, preservando allo stesso tempo l’autonomia dal dato reale. Le scomposizioni e ricomposizioni di Piero Mollica sono solo virtuali: la fedeltà dell’immagine al modello non viene mai disattesa; egli rinuncia a qualsiasi alterazione atta a produrre finzione nell’immagine, attendendo, al contrario, l’istante di vera grazia luminosa che gli suggerisce di catturare quell’attimo nello scatto. In questo senso non si allontana dal naturalismo, poiché riproduce con fedeltà analitica la realtà come solo la fotografia può fare. Per altro verso, la porzione d’architettura ritagliata dalla macchina può risultare del tutto emancipata da un racconto figurativo. Le geometrie instaurano una relazione interna che si lascia alle spalle il legame con la geografia del luogo da cui sono state sottratte. Il particolare punto di vista scelto opera, infatti, un’astrazione che ripiega le forme su se stesse, facendole interagire in un’articolazione libera dalla costrizione realistica e dalla rappresentazione. I rapporti tra gli elementi dell’immagine corrispondono a relazioni effettivamente esistenti nella realtà, ma la frammentazione rende irriconoscibili i modelli. L’abilità risiede, quindi, nella singolarità del taglio visivo, nell’angolazione del punto di ripresa sfruttato come agente di astrazione. Solo all’autore e, di conseguenza, all’osservatore dell’opera è dato possedere una posizione relativa all’oggetto, una prospettiva esterna, che all’interno della costruzione dell’immagine resta invece esclusa: nessuna coppia di linee convergenti ci parla, infatti, di punti di fuga e ordini prospettici. Per mezzo di visuali eccentriche, di prese oblique sulla realtà, questa viene estraniata e traslata in una nuova formazione. Spesso vengono smarrite le coordinate spaziali, l’inclinazione della ripresa perde la coincidenza con l’asse verticale della posizione eretta e con la traiettoria gravitazionale. Ma poco importa, qui, delle leggi fisiche, poiché con lo scatto siamo già passati nella dimensione estetica dei puri rapporti formali, dei bilanciamenti tra campiture di luce più che tra gravi. La città resta solo un pretesto, una miniera a cielo aperto utilizzata per l’estrazione di materiale da costruzione fotografica. Così, alternando estrazioni e perspicaci ricostruzioni, Piero Mollica riesce a pervenire ad una sorta di quintessenza urbana, diffusa in tutta l’età contemporanea, traendo dalle metropoli un distillato di vetro, cemento e pareti specchianti che, una volta raffinato nel suo laboratorio visivo, permette di godere esteticamente di una bellezza senza peso.