I disegni del Diluvio

Mostra personale di Radu Dragomirescu

Galleria Riccardo Costantini, Torino | 17/05/2017 - 17/06/2017

Bisogna prendere atto che tutto il mistero del mondo è oggi profanato, la sua tensione sacra essicata al sole del materialismo. Mentre la desertificazione si estende, lo spirito è fatto salvo dalla concentrazione dell’individuo su se stesso, nel distacco riflessivo utile non ad un’ascesi sulla realtà, bensì a dotarla di senso a partire da una diversa fonte.

Anche se nel cuore di una crisi, l’uomo moderno deve lucidamente tenersi in equilibrio sui principi della sua conoscenza, senza indulgere al sostegno delle superstizioni. Per rendersi quindi accessibile la comprensione di una sfera dell’ignoto partendo da una piattaforma di conoscenze d’appoggio, e all’estremo della loro giurisdizione, alle questioni irrisolte si può conferire il titolo di extra-ordinarie, sovra-sensoriali o trascendenti non solo in rapporto alla conoscenza comune, ma anche verso i domini controintuitivi al di là delle dottrine tecniche e specialistiche, mantenute a sostegno di un punto di vista oltre il quale è necessario avanzare il pensiero.

Tale possibilità, Radu Dragomirescu la inscrive nel potenziale simbolico dell’immagine, pur senza attenersi ad alcuna tradizione specifica. Al personale patrimonio iconografico si affianca quello proveniente da discipline esoteriche, culti popolari, religioni di ogni latitudine. Il suo lessico nasce, quindi, dalla manipolazione di un sincretismo simbolico conscio dell’impegno costante dell’uomo nell’attraversare la propria soglia esistenziale, ed attingere, così, ad un’esperienza di conoscenza spirituale. Il messaggio che ne deriva, dunque, non può essere decodificato, nella misura in cui esso non appartiene ad un codice della comunicazione, ma pertiene ad una espressione velata che, appellandosi al fondo limpido in ogni uomo, volge a diventare universale.

Nel quadro generale di riscatto dell’immagine da un antico bando nell’Arte, essa ha però dovuto pagare lo scotto verso una speciale critica che l’ha inestricabilmente associata alla civiltà del consumo, come segno-merce, come significante privo di verità alla deriva in un mondo intessuto di media. L’immagine riconquistata all’Arte è più simile a una comunicazione pubblicitaria che all’antica rappresentazione entro cui si rendeva visibile la lente incorporea tra l’idea artistica e l’obiettività del reale o, quantomeno, l’imitazione della natura. Al contrario, l’immagine mediatica è autoreferenziale, fa segno ad un’altra immagine senza possibilità di agganciarsi a una porzione di realtà, rimanendo invece interconnessa entro la dimensione propria della telecomunicazione. Essa, però, non completa tutte le opzioni di affrancamento dell’immagine dalla realtà. Infatti, l’altra forma di efficacia significante sciolta dal vincolo referenziale è espressa, appunto, nel simbolo, inteso come sensibile rinvio a un significato che rimane occulto.

Contro l’oscurità, infatti, si profilano le visioni di Dragomirescu, tenendosi prossime ad essa per conservarne l’eredità, ombre dell’Ombra. Sono figure che prendono corpo nei fenomeni attraverso il disegno, atto medianico tra lo spirito e l’Essere in dote all’intelligenza umana per cogliere il significato delle forme. La tecnica del disegno, in queste opere, non struttura lo spazio, né diventa espressione o traccia gestuale, ma registra il lucido presentimento della profondità segreta che si estende al di là degli oggetti, e che li adombra come enigma perpetuo. Non più dati concreti che attivano i sensi, gli oggetti si addensano nitidi e vibrano in allucinazioni simboliche esili come il punto di contatto tra la mente e l’ignoto su cui fluttuano.

A fior di nulla, gli enigmi fremono sospesi come domande irrisolte tra la luce e il mistero, tra noi e la nostra fine, e nel male, che, perpetrato sugli uomini, li riduce alla loro più scarna esistenza. Sull’orlo del nulla, anche il bene è più originario, perché la verità è nuda, e se pure rimane in silenzio, si sente la forza del dono necessario che dobbiamo a noi stessi per esistere. Ogni tavola imbandita è un pasto sacro, il nutrimento per il nostro essere, tanto più vicino alla morte in quanto ce ne preserva. La vita, d’altra parte, entra nella teoria ordinata dei simboli che completano la scena del mondo integrandosi in essa senza maggiore gravità rispetto agli altri fenomeni, poiché è della stessa specie di illusioni. Più di essa è fondamentale il bene, seppure tale prorità resti inspiegabile, ma è capace di spingere fino al sacrificio, per amore, in favore di altre vite, tenendo il miraggio della propria nel medesimo conto delle altre illusioni.

Le tavole delle installazioni ambientali sono ordinate con una cura sacerdotale. Da esse propaga una chiamata ai credenti nella sola vita entro un’area di raccoglimento più immacolata dell’atmosfera del mondo, come rivela la mancanza di sedute, che, se da una parte lascia avvicinare i presenti, dall’altra impedisce loro di unirsi al cuore dell’opera e li trattiene in lontananza, poiché l’atto sacrificale implica la custodia e la salvaguardia del mistero della vita e della morte. Non perché l’artista sia l’unico depositario di un segreto, ma perché il suo Ufficio deve mantenere il mistero puro in sé contro la profanazione di chi cerca di possederlo e disvelarlo con mezzi impropri. Ad esempio, con la parola.

Ognuno di questi tavoli è quindi allestito come un tableau vivant senza la presenza dei viventi, poiché tale assenza costituisce la scena offerta al vivente stesso che assiste al Mistero mentre ne viene tenuto a distanza, ancorché ravvicinata. È la scena vuota dove l’uomo vede l’estensione che lo separa dall’enigma dell’inizio e della fine, e la approva, senza deturparla, con la partecipazione al rituale. Con il rituale l’uomo è presente nel luogo in cui scompare la sua origine, il motivo, il senso, la causa del suo venire alla luce per morire.

Che la vita e la morte, unite nel pathos sacrificale, siano la sostanza di queste opere è attestato dalla presenza di segni violenti come una lama conficcata su uno dei tavoli, e, su un altro, l’incisione che esorta a respirare per cancellare la superbia della parola. “Nessuna parola è precisa”. La purificazione – il sacrificio è sempre ricerca dell’Assoluto – è un atto interiore inaccessibile alla parola. La poesia aleggia tra i più vicini al Mistero, ma è invece il silenzio dell’indicibile ad esserne pervaso. E quando viene smantellata ogni velleità della parola pensante, riaffiora all’ascolto il respiro dell’esistenza attraversata dal ritmo tra interno ed esterno, tra l’essere e la terra.

Le immagini di Radu sono, dunque, ad un tempo un simbolo e un rito. Se Dio è morto e nulla rimane, la splendida geometria del mondo non assomiglia più alla sinfonia delle sfere celesti, ma alla danza macabra delle sue impressioni di sogno, suonata da un amabile demone tanto per gioire del gioco della vita. Il nulla non è una provenienza, ma l’assurdo, il non senso che contorna d’un alone tutte le apparenze, che brillano proprio nel contrasto lasciando sorgere, ancora una volta inspiegabilmente, la bellezza.

In tutte le figure si avvera, dunque, un rovesciamento di attenzione dai fenomeni in piena luce allo specchio nero nel quale si riflettono. Un capovolgimento perfettamente incarnato proprio nell’adozione del disegno a grafite. Usata nei secoli di tradizione grafica per rappresentare le ombre, la stesura che Radu ne fa sullo sfondo nero la tramuta in segno delle aree luminose, i cui riflessi cangianti fanno vibrare le forme. E questa strana alchimia diventa l’allegoria della trasformazione necessaria alla nostra intelligenza confusa affinché tutti possano cogliere le visioni profonde della realtà.