Créativitique

Automatismi della creazione

Imbiancheria del Vajro - Chieri (TO) | 15/10/2010 - 14/11/2010

Assillato da ansie e terrori ancestrali che pungolano il suo istinto di sopravvivenza, il genere umano ha dovuto ideare difese e schermi protettivi a salvaguardia della propria esistenza, dapprima individuale, poi collettiva con l’avvio della storia sociale. Per sollevarsi dalle proprie angosce ed allestire un ambiente rassicurante, l‘uomo ha dato impulso a tecnologia e automazione con una progressione di crescita continua, incontenibile a partire dalla svolta dello scorso secolo.

L’innesto della variabile umana all’interno dei processi automatici e reiterabili, scanditi da quantità statistiche misurabili, ha consentito la costruzione di solidi perimetri, fisici e concettuali, che segnano non solo la trincea contro l’ignoto, ma anche i percorsi e gli spazi di movimento interni al fine di mantenere in regime efficiente la struttura. La lotta contro il nihil esistenziale proietta l’uomo nel nulla procedurale. Se automazione è la motilità autonoma – ma controllabile logicamente – di un processo indefinitamente ripetibile che attraversa diverse fasi per il passaggio da uno stato iniziale ad uno finale identico al primo, quanto eccede o devia deve essere considerato alla stregua di uno scarto superfluo. L’errore non solo è l’indizio di un’infiltrazione ineluttabile di quell’incertezza tanto temuta, ma è indice della costitutiva fallibilità umana. Finché esisteranno elementi aleatori e incommensurabili alla ragione, insieme al timore che procurano, l’uomo potrà felicemente distinguersi dagli artifici dell’automazione, così come nelle attività spirituali anche nella vita quotidiana.

Il paradiso psichico cui l’uomo aspira, quell’Eden nel quale la natura residua è totalmente addomesticata e neutralizzata, ha significato una totale delega all’amministrazione automatica delle funzioni di allerta e difesa (ed eventuale contrattacco, come avviene nel film “Il Dr. Stranamore” del regista Stanley Kubrick) dalle minacce esterne, più o meno immaginate. Di fronte alle discipline scientiste che forniscono metodi e teorie per alimentare l’automazione – e programmarla addirittura per autoalimentarsi – l’arte costituisce il connotato discriminante per ritrovare l’uomo fra gli interstizi delle sue protesi e riconoscerlo fra i suoi cloni.

La storia delle combinazioni intrecciate tra l’uomo e gli artifici dell’automazione è evidentemente caratterizzata da una problematicità fondamentale, resa critica nel momento in cui il rapporto ha smesso di essere proporzionato sulla misura umana per rovesciarsi nel predominio centrato sulla tecnica. D’altra parte, la promessa di ordine ed armonia, seppure alienata, dei progetti tecnofili si sovrascrisse sui valori antichi – Cosmos e Taxis – dell’ideale di bellezza estetica della Grecia classica: all’universo ordinato ed armonico potrebbe corrispondere la figura di una società perfettamente regolata ed organizzata. Tale retaggio ha originato utopie creative e sperimentazioni artistiche, anche laddove l’estensione illimitata dell’automazione ha avuto un riflusso verso l’uomo e il suo corpo. Rispetto alle innovazioni incalzanti, proprio l’integrità del corpo, per lungo tempo, ha costituito l’ultima soglia resistente all’infiltrazione in ogni aspetto del reale da parte dell’automazione e delle sue implementazioni meccaniche e cibernetiche. Ora che quella soglia è stata attraversata, forse dissolta e dispersa, si prospettano scenari di mondi abitati da ibridi uomo-macchina o da intelligenze artificiali che duplicano i problemi morali sollevando anche questioni etiche completamente nuove.

L’uomo è sempre stato affascinato dal suo doppio controllabile (robot e avatar) ma la duplicazione perfetta deve implicare un grado di imprevedibilità la cui pericolosità sarebbe moltiplicata proporzionalmente alla potenza e libertà di condotta della popolazione automatica. Si renderebbe necessaria una giurisprudenza per così dire cibernetica. Il corpo organico, come sostiene l’artista del Post-human Stelarc, che lo collega alla rete internet per testare possibilità e criticità del controllo esterno, sta diventando obsoleto: velocità elettronica ed esistenza virtuale sono le frontiere possibili con le quali l’uomo deve fare i conti, anticipandone gli esiti e prevenendone, si spera, le crisi. Marshall McLuhan scrive che “gli artisti raccolgono il messaggio della sfida culturale e tecnologica decenni prima che essa incominci a trasformare la società. Dopo di che costruiscono modellini o arche di Noè per affrontare il mutamento che si prepara” (Gli Strumenti del Comunicare). L’artista è l’anticorpo sociale contro le irritazioni causate da prestazioni parossistiche.

I contributi che l’automazione ha offerto alla produzione artistica sono molteplici, quanto le sfumature dei rapporti di convivenza e intreccio o di conflitto. Solo in parte è vero quanto tentano di dimostrare alcune teorie moderniste: che la pittura ha trovato il percorso dell’autoreferenzialità astratta dirottata dall’urto delle invenzioni di Daguerre. L’Impressionismo cercava di competere con l’immediatezza della fotografia, mentre le campiture a plàt di Manet, prodromi dell’esaltazione della verità piana e materiale nell’astrazione di inizi ‘900, hanno forse tratto spunto dalle aberrazioni tecniche delle prime fotografie, che riducevano la rappresentazione del referente a campi più o meno omogenei di bianchi luminosi e indistinti e ombre ampie e piatte. Il Bauhaus e Walter Benjamin, nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera, compensarono la perdita di aura circonfusa intorno al manufatto artistico con l’ottimismo della diffusione capillare e socialmente transclassista. La critica ai meccanismi istituzionali di potere e sorveglianza ha suggerito agli artisti le analisi sulle distopie future nel tentativo di schivarle. Tuttavia, l’aspetto più rimarchevole dell’accostamento tra creatività e automazione riguarda lo status di opera d’arte per quei prodotti in cui l’intervento artistico si riduce ad una scelta progettuale o semplicemente ad una selezione tout court dell’oggetto automaticamente prodotto. La questione ha poi coinvolto retrospettivamente tutto quanto veniva considerato interno alla famiglia dell’arte prima della crisi identitaria. L’opera, innocente in questa sua mancanza, non può più fornire indicazioni circa il proprio valore artistico. Cosa rende arte il prodotto industriale cooptato nelle installazioni esposte nei musei? Perché è un’opera d’arte la Cloaca Maxima di Wim Delwoye, un apparato che automatizza i processi organici per la metabolizzazione e trasformazione di comune cibo in comune escremento “automatico” (sic)?

Anche grazie a questi interrogativi, la leva della critica ha sollevato ogni fondamento che avrebbe garantito un’architettura solida per la delimitazione di un ambito autonomo e distinto consacrato all’arte, quindi mistificato. La morte degli dei non ha risparmiato il Tempio delle Muse. Ma intanto, la più energica opposizione al programma automatico proviene dal godimento dell’opera, estetico o meramente intellettuale. Una teoria che si cimentasse con l’irrisolvibile obiettivo di una topica dell’arte, o di una drammatizzazione precisa delle personalità coinvolte, si troverebbe costretta a situare l’interpretazione nel luogo occupato dall’uomo. Qualunque evoluzione indotta nella macchina (e forse solo per essa si può parlare di evoluzione in senso stretto), le consentirebbe di comprendere informazioni e istruzioni univoche con un incremento performativo, non di avere intuizioni sull’opera d’arte, né di disporre un’azione critica. Sull’altro versante, l’artista può continuare a contare su questo assioma e rifornire il mondo di oggetti, azioni e concetti posti nel nodo plurimo delle relazioni tra produzione e fruizione. L’illimitatezza delle opportunità tecniche e l’infinita varietà della comprensione dell’opera sono le condizioni stesse per la perpetuazione dei problemi estetici, intesi nell’accezione più ampia della contemporaneità che non può estromettere l’oggetto funzionale di design, né lo scarabocchio del bambino. Dobbiamo sottrarci dall’immaginare l’artista come demiurgo, ma possiamo descrivere la creatività come infinita devianza nella storia dell’arte. A volte, questa devianza è incoraggiata dalle innovazioni tecniche – parte del messaggio é racchiuso nelle proprietà strutturali del mezzo – ma la questione dei rapporti tra arte e automazione non potrà mai risolversi in una sintesi rigida ed immutabile.