Confini mobili
Castello della Contessa Adelaide Susa (TO) | 20/12/2013 - 06/01/2014
Sarebbe sufficiente uno solo dei paradossi degli antichi greci per evidenziare l’ambiguità, l’equivocità e, infine, l’inconsistenza dei limiti. Nel paradosso del sorite di Eubulide di Mileto, se da un mucchio di sabbia sottraiamo un granello alla volta, fino a che punto potremmo parlare di mucchio? L’ultimo granello è ancora un mucchio? Lo stesso avviene nei paradossi di Zenone, atti alla dimostrazione dell’inesistenza del movimento: la freccia occupa lo spazio della sua lunghezza in ogni singolo istante, trovandosi immobile, dunque, in ognuno di essi.
Gli esperimenti mentali zenoniani si situavano in una cornice epistemica entro la quale tempo e spazio venivano intesi in senso quantitativo e parcellizzato. Tuttavia, i suoi paradossi erano giochi che potevano sollecitare le saldature di tale cornice fino alla rottura. D’altra parte, per quanto oggi siamo consci della fluidità dell’esistenza, gran parte della nostra stessa vita è inquadrata, nonché razionalmente amministrata, dalle stesse regole temporali e spaziali dei giochi zenoniani. I nostri tempo e spazio sono contabili; la loro possibilità di segmentazione entro limiti precisi e unità addizionabili condiziona in tutto la nostra vita ordinaria. Dunque, a fronte della nostra consapevolezza, perché continuiamo a perimetrare ciò che scorre ed è mutevole, a circoscrivere e confinare le energie mobili che premono e si sfrangiano contro tutti gli argini? Cosa ci offre in più il contenimento della realtà entro limiti rispetto al libero scorrere di flussi magmatici, sanguigni, pulsionali, nomadici?
Concettualizzare la realtà, forzarla entro le caselle dei codici, serve a una maggiore conoscenza del mondo. La concettualizzazione, inoltre, è utile alla comunicazione delle conoscenze. Tuttavia, per scoprire il rimosso della conoscenza finita bisogna allertare i sensi su ciò che accade negli interstizi tra i concetti, nello iato aperto tra questi e le definizioni e tra le definizioni e la realtà, sugli smottamenti di senso che sfocano un significato apparentemente univoco e inequivocabile. Il confine è l’unico luogo dove le microfratture tra le forme rivelano sintomi di energie profonde. Persino la matematica non ignora questi fenomeni laddove intende includerli in formule statistiche: approssimativamente, le leggi della fisica funzionano nella maggior parte dei casi; il comportamento della natura è per lo più uniforme, e solo questo ci consente di legiferare su di essa (non di scoprire leggi naturali); gli spostamenti dell’asse terrestre sono tanto impercettibili da poter essere ignorati ad una certa scala nei calcoli astronomici. Il mondo, così disegnato, è statisticamente regolare. Solo con queste premesse possiamo misurare delle aree spaziali e dei lassi temporali delimitandoli per ogni scopo.
La geometria ha implicazioni sociali. Delimitare territori è funzionale alla specificazione di una identità nazionale con il corollario di diritti e doveri civili. Essendo una risorsa, poi, lo spazio è collocato sul mercato (ad esempio, quello immobiliare) e non può che essere delimitato e misurato per essere equamente scambiabile con la moneta in corso. Un confine distingue, dunque è sempre un giudizio su qualcosa che viene separato e individuato. Nel giudizio, alla distinzione consegue l’unione di una entità sostanziale con i suoi attributi: un oggetto è blu in quanto non è anche di altri colori, un cittadino è italiano perché non è anche di altre nazionalità, un comportamento è giusto in quanto non ricade tra i contegni ritenuti colpevoli. Ma, a questo proposito, dovremmo considerare che la varietà dei motivi e dei moventi che ordinano una certa azione è talmente vasta che solo ignorando ciò che è più sottile (proprio ciò che, forse, è più rilevante sul piano metafisico) è possibile delimitare il confine tra quanto è giusto e ciò che non lo è. Anzi, le zone complementari di un’intera gamma, da quella cromatica a quella giuridica, non preesistono al confine, ma da esso – come riteneva Deleuze in “Differenza e Ripetizione” – sono poste originariamente, germinano da una matrice liminare per estendersi in superficie a partire da una apertura, un margine primitivo tra ciò che è ciò che non può essere per noi perché non ancora distinto:
[il limite è il] momento in cui la differenza dilegua, che è poi anche il momento in cui si produce. La nozione di limite muta completamente di significato, non designando più i confini della rappresentazione finita, ma al contrario la matrice in cui la determinazione finita non cessa di scomparire e di nascere […]. Essa non designa più la limitazione della forma, ma la convergenza verso un fondamento; non la distinzione delle forme, ma la correlazione del fondato col fondamento; non l’arresto della potenza, ma l’elemento nel quale la potenza è attuata e fondata.
La parte più significativa e lucidamente critica della nostra esistenza sembra, dunque, risiedere proprio lungo i margini e le frontiere che separano, in apparenza, aree di netta distinzione, dotate rispettivamente di una certa natura, specificate da un’appartenenza. In questo senso, il confine non solo risulta fluttuante, ma consente anche rovesciamenti continui di punti di vista. Esso non delimita solamente, bensì protegge; non circoscrive un’area ma ne rappresenta altresì il volto che guarda all’esterno e dialoga o lotta; non è un limite ma una soglia. Se consideriamo le nostre aspettative, solo al confine esse possono venire disattese, rivelando la novità e consentendo la scoperta. Una lamina sottile quanto un confine incalcolabile offre il microclima adatto alla germinazione di quanto non esiste ancora, poiché qui avvengono cortocircuiti, mescolanze, osmosi, ibridazioni, si consumano amplessi fecondi tra le forme note che verso i limiti tendono a violare le norme, concependo una continua progenie di corpi profilati ancora senza nome.
Il margine è l’essenza stessa del campo, non solo in quanto lo delimita, bensì perché, tra l’altro, lo satura: all’interno dei campi apparentemente omogenei e neutri, infinite diversità pullulano a nostra insaputa, di nascosto dalla scala sintetica e sommaria delle nostre percezioni. Laddove vediamo un’area uniformemente dipinta, essa è in realtà infinitamente ricca di tonalità spesse quanto un margine. Infinite possibilità si estendono tra quelle che riteniamo essere polarità opposte, esse stesse passaggi nel continuum dell’esistente ove uomo e donna, bianco e nero, luce ed oscurità, soggetto ed oggetto non sono che nomi assegnati a fenomeni transeunti. Esplorare la soglia, rischiare la scoperta, ed essere estremamente sensibili a queste vibrazioni della realtà sono tutt’uno.








