2/5/2024

IL MUSEO COME CENTRO DI ALFABETIZZAZIONE PER IL FUTURO

RIVOLI (TO) | CASTELLO DI RIVOLI | Intervista al direttore Francesco Manacorda

Dal 1984 il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea ha fatto conoscere al suo pubblico artisti, estetiche e ricerche tra i più qualificati nella dialettica con il mondo contemporaneo. Il merito va riconosciuto anzitutto a chi diede vita al Museo nell’antica residenza juvarriana dei Savoia e alle politiche pubbliche e private che lo hanno sostenuto nei suoi 40 anni di attività, ma anche alle personalità di spicco che si sono succedute nella direzione museale, da Rudi Fuchs fino al più recente mandato di Carolyn Christov-Bakargiev, concluso nel dicembre scorso. La nuova nomina è stata assegnata a Francesco Manacorda, che torna a Torino a distanza di dodici anni dalla sua conduzione della fiera Artissima. Nel frattempo, ha sommato esperienze presso la V-A-C Foundation e la Tate Liverpool, ha insegnato al Royal College of Art di Londra e curato le Biennali di Liverpool e Taipei. Le linee guida annunciate dal neodirettore sono quelle imprescindibili per chiunque oggi assuma compiti di responsabilità culturale: sensibile apertura verso tutti i generi di individualità, percezioni incrociate tra culture differenti in rapporto paritario, conservazione dinamica dell’identità e della storia del Museo, relazioni territoriali e internazionali, attenzione alla crescita dei visitatori, con obiettivi formativi che prevalgano sulla semplice attrazione.

Direttore, ha giustamente osservato che la dimensione temporale più significativa per l’arte è il futuro. Anche il direttore di un Museo ha tra i suoi compiti quello di presentire voci ed esperienze che provengono dal futuro dell’arte…

Credo che il futuro ci prospetti varie questioni da risolvere, sia dal punto di vista artistico sia dal punto di vista umano. Certamente l’intelligenza artificiale avrà un impatto forte sugli assetti socioeconomici, ma anche sulla creatività. Questo non vuol dire necessariamente che l’arte sarà fatta dalle macchine, ma che dovremo riflettere su cosa fa l’artista e sul compito del museo nel momento in cui le macchine hanno acquisito una capacità di previsione, e quindi di simulazione, così avanzata. L’arte non sarà mai messa a repentaglio da questi sistemi, perché una delle sue prerogative più importanti e durature è l’imprevedibilità. Se pensiamo che la macchina in realtà prevede la migliore possibile risposta basandosi su un’analisi statistica, allora l’imprevedibilità, cioè l’aspetto creativo, l’esplorare strade mai battute prima, protegge l’intelligenza e l’intuizione creativa e le differenzia dall’attività artificiale. Ad ogni modo non prenderemo in considerazione solo l’AI, ma anche il nostro rapporto con le immagini, con le informazioni, con la capacità di decodificare il contenuto mediato, cioè il contenuto inviato e non esperito direttamente nel reale.

È un confronto obbligato, fosse anche in modo dialetticamente negativo, nel senso che, tra le varie possibilità, l’arte può anche esistere in rapporto di reciproca esclusione con la tecnologia avanzata, come nel caso della pittura.

Assolutamente. Ma non è tanto una questione di mors tua vita mea, quanto di cambiamento dei paradigmi. I social, ad esempio, stanno modificando l’economia dell’attenzione, trasformano l’assorbimento dell’informazione audiovisiva in particolare, con ripercussioni sul museo e sull’arte. Quello che è davvero interessante, al di là dello scenario di un’opera prodotta dalla cibernetica, è come cambia la nostra lente per guardare il mondo. Penso sia molto interessante l’impatto dell’attenzione modificata dai social sulla pittura. Servirà comprendere che cosa vuol dire osservare un dipinto in un museo rispetto a uno scrolling sul proprio telefono, e come si comunica a una nuova generazione che è importante fare esperienza viva di quel quadro, e non solo rimanere appoggiati al telefono.

Reputo fondamentale per un museo diventare un centro di alfabetizzazione alle informazioni, che insegni la capacità di filtrare, selezionare e distinguere contenuti. L’esempio che faccio spesso è quello della Divina Commedia, che non serve più conoscere a memoria, perché la troviamo immediatamente disponibile sul telefono. Il problema si sposta sulla capacità di capire qual è la risposta più rigorosa, più corretta e rilevante rispetto alla domanda che rivolgiamo alla tecnologia. Fare le domande è molto semplice, ma insegnare a selezionare le risposte può essere uno dei contributi del museo e dell’arte contemporanea.

La molteplicità di prospettive, identità e modelli di pensiero distanti è parte della sua visione nella misura in cui si propone di far dialogare “approcci, epistemologie e tradizioni differenti e, a volte, addirittura in contrasto”. Quale soggetto culturale presenta oggi, a suo avviso, il maggiore contrasto con la nostra parte di identità? In che modo un museo di arti visive può tentare di indurre a parlarsi, visto che la forma più estrema del contrasto implica la negazione del dialogo da parte di almeno una posizione più radicale?

I conflitti a cui mi riferivo hanno a che fare con i contrasti epistemologici, tra sistemi di conoscenza diversi. Attraverso le connessioni fisiche e tecnologiche siamo sempre più in contatto con culture differenti; culture che non possono più essere inglobate, come avveniva in passato, all’interno della prospettiva occidentale. Il museo è un esempio principe di questo aspetto, della violenza nei confronti delle altre culture. Siamo abituati a vedere il museo come se fosse il modo naturale di esprimere, raccogliere e raccontare la particolare categoria culturale che chiamiamo arte, ma sia l’arte che il museo sono invenzioni occidentali. Non necessariamente ogni visione si inserisce completamente in questa sovrastruttura culturale inventata dall’Occidente. Dobbiamo quindi riuscire a incorporare nel museo anche culture che, ad esempio, non concepiscono una differenziazione tra arte e altre espressioni materiali, che non ritengono prioritaria la conservazione di artefatti per le future generazioni. Può darsi, invece, che quegli artefatti intendano usarli. Il Museo della civiltà di Roma diretto da Andrea Villani si sta occupando di questi problemi, gestendo tutto il tema delle restituzioni, del rapporto tra culture e del passato predatorio dell’occidente. Le culture indigene hanno prodotti culturali non necessariamente classificabili dai sistemi di conoscenza occidentale, ma devono comunque essere messe nelle condizioni del dialogo. Questo non vuol dire snaturare il museo, ma riformulare al suo interno la necessità di accogliere, oltre a quelle che per noi sono opere d’arte, sistemi di conoscenza differenti.

A proposito dei conflitti geopolitici, invece, la questione diventa più delicata. Si tratta di un aspetto che l’arte ha sempre affrontato, ma è molto complicato, quando un conflitto è ancora aperto, riuscire a trattarlo in maniera non offensiva per una parte o per l’altra. Un esempio è l’attuale situazione in Medio Oriente, che provoca contrapposizioni forti anche nell’ambito di normali discussioni. Quando l’arte parla dei conflitti lo fa molto spesso identificandosi con le vittime. Se c’è la possibilità di individuare vittima e oppressore diventa molto difficile non prendere posizione. I social, inoltre, hanno purtroppo deformato la nostra capacità di esprimerci, rendendo queste situazioni di agone democratico molto facilmente strumentalizzabili.

Quindi l’attuale complessità della pubblica opinione censura in qualche modo anche la libertà del museo.

È quasi una necessità. Il Museo deve fare attenzione a mantenere una posizione neutra, non soltanto per paura di attacchi nell’agone mediatico.

La prima mostra del nuovo programma museale è dedicata a Rossella Biscotti, nello spirito di un attento equilibrio di genere, che rientra tra i presupposti per lei più rilevanti. Seguiranno gli eventi inseriti nell’ambito del festival di fotografia Exposed (prima edizione, dal titolo New Landscapes – Nuovi Paesaggi, in corso dal 2 maggio al 2 giugno 2024, ndr) con la personale di Paolo Pellion di Persano e l’esposizione diffusa tra Castello di Rivoli, OGR e GAM Torino, nel segno della connessione di territori e istituzioni. Nature vibranti, Sul residuo e la rinascita articola, invece, un altro importante caposaldo del suo programma rappresentato dall’interdisciplinarità. In ottobre vedremo finalmente il primo progetto espositivo che porta la sua firma. L’attenzione è posta sull’arte che integra azione umana e incidenza del non-umano in una “collaborazione creativa”…

La mostra si articolerà intorno al rapporto con il non umano, con la natura e con le altre specie. Non ci riferiamo, in questo caso, alla tecnologia. Sarebbe estremamente complesso unire entrambi gli aspetti. Questa mostra si occupa, invece, di guardare alla relazione tra l’uomo e gli altri esseri in modo non gerarchico e antropocentrico. Gli artisti lo fanno in maniera simbolicamente molto convincente quando operano attraverso elementi su cui non hanno il pieno controllo, mettendo in questione la presunta superiorità antropica. Nella collaborazione l’autore umano non governa interamente il processo. La riflessione riguarda, quindi, la stessa posizione dell’uomo nel mondo, il controllo, il potere, la dominazione. Sono tutti aspetti importanti che tentano di raccogliere l’interesse di artisti e pubblico sull’urgenza della sopravvivenza dell’ecosistema. L’Antropocene finirà, l’uomo sarà estinto sulla terra, ma a me interessa di più cercare di visualizzare e comprendere attraverso il lavoro degli artisti quanto il nostro rapporto con la natura sia di interdipendenza e non di dominazione.

A quali strategie avete pensato per avvicinare il più ampio pubblico a queste intense investigazioni proposte dal Museo?

Per rendere il museo rilevante non basta che sia un luogo in cui andare a vedere una mostra. Serve, invece, offrire una varietà ampia di motivazioni diverse che interessano gruppi di persone diverse. Questo meccanismo si può ottenere con azioni di programma, toccando temi e questioni di interesse più generale, non solo quelle meramente storico artistiche. Oppure attraverso eventi, progetti e attività collaterali, di public program, attività educative. Ma la cosa più importante per me è se il museo riesce veramente a diventare un centro di alfabetizzazione per il futuro. Questo lo rende attrattivo per le persone che riconoscono l’opportunità di apprendere, interpretare e decodificare il mondo di oggi. Quindi non vado al museo solo perché l’educazione culturale mi impone di conoscere la storia dell’arte. Il pubblico deve essere piuttosto indotto a pensare che l’esperienza del museo è utile a comprendere l’impatto dei social sulla vita, a non essere passivo nella comprensione dell’intelligenza artificiale, o a decodificare le immagini in maniera più efficace e veloce in modo che non rimanga preda di propagande di qualsiasi natura. Il destinatario della proposta museale deve riconoscere l’effetto positivo sulla propria vita intellettuale ed emotiva.

Francesco Manacorda è stato Direttore Artistico della V-A-C Foundation (2017-22); Direttore Artistico di Tate Liverpool (2012-17), Direttore di Artissima (2010-12) e Curatore presso la Barbican Art Gallery (2007-09). Dal 2006 al 2011 è stato Docente presso il dipartimento di Curating Contemporary Art del Royal College of Art, Londra. Ha co-curato nel 2016 la Biennale di Liverpool e nel 2018 l’undicesima edizione della Biennale di Taipei.


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