18/1/2024

GIANNI CARAVAGGIO. IN PRINCIPIO ERA L'IMMAGINE

TORINO | Galleria d'Arte Moderna - GAM | 1 Novembre 2023 - 17 Marzo 2024

La natura materiale e spaziale delle opere di Gianni Caravaggio farebbe dell’artista senz’altro uno scultore, anche se l’uso di elementi effimeri e il perimetro indefinibile dei corpi scultorei ne spostano subito i modi oltre le pratiche convenzionali del linguaggio. Al contrario, la forma, per Caravaggio, non è che la parola concreta di un atto poetico attraverso cui l’arte riconsegna lo sguardo al candore originario delle immagini, come se queste sbocciassero per la prima volta in occhi puri. Piccoli spostamenti di senso, contravvenzioni alla logica dei materiali, come in un blocco marmoreo che cede morbidamente sotto l’impalpabile pressione di una polvere bianca, trasmutazioni della materia che cristallizzano i vapori delle nuvole in pietre d’alabastro precipitate a terra, sono ciò che accade davanti a occhi increduli, rivitalizzati nella meraviglia delle immagini del mondo.

Al loro sorgere le immagini sono segnate da un duplice destino. Da una parte si osserva il prodigio della creazione, l’apparire iniziale della realtà come un enigma che si perpetua nel tempo. Basta guardarsi intorno e chiedersi come tutto ciò che esiste abbia avuto origine per cogliere in ogni cosa una luce diversa. Con questa domanda tenuta ben presente è come se l’intera scena della vita si ricreasse per noi ad ogni istante. L’attimo non sembra più un momento qualunque tra i punti del tempo, ma brilla in modo strano, come se non avessimo mai visto prima nulla di simile. L’altro destino è quello della caduta delle immagini nella massa compatta degli oggetti del mondo, perdute nello svolgere normale delle azioni e delle esperienze di tutti i giorni. Le forme poetiche di Caravaggio trattengono l’emozione vicino al luogo in cui avviene lo sdoppiamento dei destini, dove il presente è ancora sospeso tra la propria eterna creazione e l’inevitabile prossima caduta in ciò che appare.

Ha descritto le sue opere come eventi e atti poetici che creano originariamente immagine e luogo grazie alla capacità di suscitare stupore. Quali caratteristiche del suo lavoro lo rendono possibile?

Quello che tento di fare è formalizzare concretamente il minimo indispensabile per ottenere la massima stratificazione immaginativa. L’opera si basa sul dare fisicità, ovvero esperienza, a qualcosa che di natura rimane incerto. Quel margine di incertezza rappresenta la fecondità dello stimolo che viene testimoniata attraverso la qualità di di percezione riflessiva della forma. Nella natura positiva di quel campo incerto che si costituisce non è possibile decretarne un senso univoco, una verità unica di cui si possa parlare come di un tema. La verità, nel senso in cui la intendo, non è un’affermazione deterministica, ma un’evocazione di qualcosa che viene sentito, che provoca ascolto, osservazione, ovvero un movimento riflessivo. L’opera non propone un contesto di senso stabilito a priori, ma lo genera. Oggi si ha sempre più difficoltà a cogliere l’aperto, il polisemico, le parole tra virgolette il cui senso è inteso ma non espresso, ciò che è solo suggerito ma non definito e che richiederebbe empatia e sensibilità. La fluidità spesso invocata diventa nella realtà dei fatti un termine puramente ideologico.

La forma, nel mio caso, è un atto finale solo nella consegna pratica, ma in essa si mostra il momento di un inizio, un evento aurorale. Per questo motivo l’opera non ha un significato prestabilito. Il significato però sembra dietro l’angolo, se ne ha il presentimento, ma non giunge mai a palesarsi e cristallizzarsi definitivamente perché è abbracciato dall’aperto.

In Eppure sono solo qual è, ad esempio, il senso di quel “solo” o di “eppure”? L’installazione è costituita da un ananas in bronzo tagliato in spicchi e disposti così da essere accolto nella struttura rettangolare di uno spazio architettonico (angolo, spigoli e pavimento). È lei che afferma di essere una sola nonostante la divisione e l’apparente moltitudine, evocando l’ambiguità tra l’uno e il molteplice, tra singolarità e pluralità disseminata nello spazio. L’ananas d’altronde oggi sembra essere di casa, ma in realtà è l’estraneo che viene dall’ “oltremare”.  Una domanda sull’ambiguità della percezione di sé, sulla questione tra apparenza e realtà o sui paradossi spazio-temporali che oggi vengono captati non solo da immaginazioni poetiche ma anche da questioni di fisica quantistica. Il titolo potrebbe suggerire un significato autobiografico, ma non sono interessato alle questioni che implica l’autoritratto, mi interessa piuttosto una riflessione che può valere per chi osserva e si osserva. Spesso il divario tra aspetto dell’opera e proposizione del titolo contribuisce ad aprire quell’abisso che serve all’immaginazione per espandersi. D’altro canto non dico che non esiste un senso intenzionale, anzi, direi che il senso è di una precisione meticolosa, ma in questo suo essere meticoloso (al contrario del significato) crea una precisa apertura al movimento creativo della mente.
La Nuvola che mostra i propri sentimenti espone, attraverso i tagli che dissezionano la pietra, letteralmente la propria interiorità. Esporre la propria interiorità abitualmente viene inteso come metafora delle emozioni. In questo senso l’opera può anche funzionare come allegoria di un senso esortato, il suo movimento che crea attraverso i ritagli mossi in una direzione è come se fossero stati trascinati dal vento, un po’ come le linee nelle nuvole di Bramante. L’energia dell’opera definisce un fondo iniziale che suscita nuovi percorsi di evocazioni e di pensiero. Le cose del mondo da questo punto di vista possono essere continuamente ri-iniziate e ri-pensate.

Quanto è dovuto a una sua necessità personale e quanto, invece, sente come artista la responsabilità nei confronti del pubblico? Mi riferisco al compito di purificare lo sguardo, di far riscoprire in chi osserva l’arte l’incanto perduto davanti all’immagine del mondo.

Sento una particolare responsabilità, forse anche nel senso di una missione. Invito il pubblico nella responsabilità di ciò che inizia da me, vedendomi come mediatore di quell’inizio: se un evento originario accade in me, ho fiducia che potrebbe accadere anche in chi osserva. In sostanza non mi pongo come un artista, quanto, piuttosto, come spettatore di fronte a ciò che inizia. Potrei dire di aver maturato una certa esperienza come “professionista” dell’arte, ma questo è poco autorevole quando mi approccio ad una intuizione ogni volta come una qualunque persona che coglie un lampo, una scintilla, che poi amplifico, sperando che questo miracolo dell’inizio si avveri in chi osserva. La differenza la fa la fiducia che quel lampo, quella scintilla sottovoce abbia senso: questo è la responsabilità. La messa in forma è, in un certo senso, l’apostolato tangibile di ciò che la inizia, un ragionamento, un’evocazione, il viaggio sperimentabile grazie alla percezione dell’apertura che vorrei far intuire, declinata in varie immaginazioni attraverso il linguaggio concreto che chiamiamo scultura.

La mostra in corso presso la GAM di Torino, Per analogiam, evoca il principio medievale dell’analogia tra enti terreni e sfere superiori per espandere il respiro della scultura – ma sarebbe meglio dire dell’arte – dalla sua singolarità concreta alla dimensione cosmica. Tuttavia, nelle sue opere il rapporto tra i due piani non si presenta certamente nella forma classica di un universo ordinato tra microcosmo e macrocosmo. La sua analogia non è un teorema, quanto piuttosto il mezzo per uno slancio dell’immaginazione, un canale di comunicazione che avvicina le stelle alla terra e innalza la fronte tra gli astri. Cosa succede nel cuore, nella mente o nello spirito dell’uomo seguendo le tracce della sua analogia?

Il mio lavoro richiede tempi lenti e riflessivi, esso si costituisce nella contemplazione. L’atto contemplativo è della singola persona, anche se non è puramente personale in quanto fa emerge ciò che si trova nel nostro profondo, unendosi a ciò che si coglie nella visione esterna. In questo modo si crea una costellazione di insieme in cui opera e fruitore si trascendono a vicenda: l’opera si supera nell’essere mero oggetto, mentre il fruitore oltrepassa l’abitudine che ha di se stesso e della realtà.

Con la Coperta dell’eremita, il mistico si avvolge di un manto di stelle. La solitudine rende per natura mistici nel bene e nel male. Stare soli con se, con la natura, non è facile. La prima versione della coperta era pensata come lavoro permanente per l’Eremo di San Giovanni all’Orfento a Caramanico Terme nel 2017, praticamente una nicchia scolpita nella parete di una montagna che si affacciava sul paesaggio e sul cielo. Ho lasciato la coperta nell’Eremo in testimonianza dell’esperienza dell’eremita, la sua visione delle stelle  con cui si copre nel freddo della notte. Qualunque passante ne avesse avuto bisogno avrebbe potuto adoperarla per scaldarsi. Nella riproposta di Torino ho ricamato la costellazione stellare sopra la GAM del 31 ottobre 2023 alle ore 18, coincidente con l’inaugurazione della mostra, l’inizio di questo tempo. L’eremita si apparta per accogliere la compagnia celeste che lo scalda, e questo non lo fa per se ma per il mondo intero. Un augurio per ogni visitatore della mostra.

La coperta dell’eremita  concentra una moltitudine di eventi e suggestioni, una risonanza inattesa tra cielo stellato e una cosa che è infatti un oggetto d’uso nella sua forma contenuta. Potremmo forse parlare di bellezza per questa proliferazione dell’immaginario nell’immaginazione. Ogni mia opera viene predisposta per essere un seme, ma non può sbocciare senza il fermento dell’immaginazione. Ecco cosa può essere bello: ravvivare la pigrizia della mente.

A proposito dei teoremi e delle metafisiche ho potuto sviluppare gli anticorpi necessari contro la codificazione. Credo di non avere né tematiche né forme stilistiche particolari, anche se comunque non sono immune da una lettura classificante. Ma sono problemi da poco rispetto a quello più rilevante e di estrema importanza che è di creare senso, il che è come costituire una casa per chi guarda.

Il senso è il contrario di quello che si definisce come tema, perché il tema è univoco, ed è quello che oggi si pretende sempre più nella ricezione dell’arte: la comodità dell’univocità del significato. Il senso è invece qualcosa che apre verso un campo dell’immaginazione da definire ogni volta di nuovo, esso dà casa alla percezione immaginativa. D’altro canto, come dicevo prima, vi è una certa attenzione e precisione quasi investigativa nel disegnare un inizio. Quell’inizio che potrei descrivere con l’evento dello stupore lo considero come il mandato per fare qualcosa e non nulla, che mi destina in veste di un fondo motivazionale imperscrutabile. Nel suo attuare l’inizio l’opera d’arte non può essere definita da un mandato istituzionale. Il mio mandato rivelatorio è nascosto negli interstizi del reale, l’incertezza di un momento poetico a cui do corpo riflessivo. Ogni volta questo corpo mi stupisce per la sua spazialità che risuona in analogia con i fenomeni di una dimensione cosmica. La percezione non rimane entro i limiti della dimensione domestica o sociale, perché questa si abbraccia a una sfera cosmica, come se disvelasse e puntasse sensibilmente ciò che la trascende. Se dobbiamo parlare di metafisica, non va intesa tanto a livello filosofico, quanto invece nel senso dechirichiano, definito dalla capacità di posare uno sguardo nuovo su tutto ciò che appare.

Gianni Caravaggio è nato a Rocca San Giovanni (CH), nel 1968. Vive e lavora a Milano e a Sindelfingen (Germania) dove è cresciuto fino al 1990. Dopo gli studi in filosofia all’Università di Firenze, Milano e Stoccarda nel 1994 si è laureato all’Accademia di Belle Art di Brera. Le differenti soluzioni formali e materiali delle opere sintetizzano un valore allegorico e evocativo. Le opere permettono la creazione di senso anche attraverso la proposizione del titolo coinvolgendo l’osservatore con la sua immaginazione e la sua percezione. L’artista definisce le sue opere come “Dispositivi per atti demiurgici”.
Per analogiam è la sua ultima mostra personale antologica, in corso fino al 17 marzo 2024 alla GAM di Torino e a cura di Elena Volpato.
L’artista attualmente lavora con Galerie Rolando Anselmi Berlino e Roma, kaufmann-repetto Milano e New-York, Gallery Andriesse-Eyck Amsterdam.


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