10/12/2019

COSIMO VENEZIANO. LE STORIE CHE NON AVETE DETTO...

Espoarte #107 - Intervista all'Autore

La mostra Multiverso, a cura di Ilaria Bonacossa e realizzata con il sostegno della Fondazione La Raia, è il nuovo capitolo di Biomega, un progetto trans-disciplinare che affianca Cosimo Veneziano e il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università IULM di Milano in uno studio sulle applicazioni delle biotecnologie e delle neuroscienze nell’ambito delle strategie di marketing. Lo studio, avviato nel 2018, si sviluppa come un programma di ricerca in fasi progressive. Le prossime si concluderanno con un’esposizione per Matera Capitale Europea della Cultura 2019 e una nuova mostra presso CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia all’inizio del 2020. L’intero progetto descrive i tratti propri di un modo di agire artistico che comunica con i diversi livelli delle pratiche quotidiane e delle teorie che le riflettono. I ruoli assunti da Cosimo non lo definiscono come soggetto e autore, ma come agente che innesca, catalizza, connette o dissemina molteplici comportamenti e interazioni, registrandone gli effetti grazie alla mediazione dell’immagine. Le opere sono quindi il segno di una reinvenzione continua di se stesso nei panni dell’artista, del ricercatore, del promotore culturale, senza ulteriori precisazioni e lasciando che gli effetti si modellino tra le forze in gioco. La centralità dei suoi compiti si sposta ininterrottamente lungo i confini delle situazioni, sia per avere uno sguardo laterale sulla realtà, sia per garantire il carattere plurale nella produzione e interpretazione dei significati dell’opera.

Vorrei partire dalla fine di un inizio. Sei stato cofondatore del Progetto Diogene, una tra le realtà associative che si è dimostrata tra le più dinamiche e feconde a Torino negli ultimi dieci anni. Molte delle istanze che ne hanno motivato la formazione sono tutt’ora parte del tuo percorso artistico. Che senso dai, quindi, alla tua separazione dal collettivo?
Il Progetto nacque come gruppo informale di artisti per superare l’isolamento individuale e la conseguente mancanza di soggetti collettivi e associazioni. Nella filosofia di Diogene di Sinope trovammo un ideale rapporto con la realtà, legato a una riduzione del superfluo allo stretto necessario, all’autonomia di pensiero, all’attenta osservazione del mondo circostante, al cosmopolitismo, all’edificazione di una consapevolezza sempre vigile e di indipendenza esistenziale. Caratteri che accomunavano le diverse personalità del gruppo insieme a una forte propensione verso l’unità di teoria e prassi. Dal 2007 ad oggi il Progetto è in continua evoluzione, proprio come i suoi componenti. La decisione di separarmene dopo dieci anni è stata dettata da diversi fattori, sia di natura pratica (non vivo più stabilmente in Italia) sia di contenuti, perché negli anni ognuno cambia il proprio modo di lavorare, di pensare e fare ricerca. Tutti i gruppi, e in particolar modo quelli mediani, hanno anche dei tempi organici di maturazione e separazione. Per la mia attività è stato comunque fondamentale farne parte.

I tuoi lavori si sviluppano come processi che coagulano diverse linee operative, dall’indagine sugli archivi all’esplorazione del territorio, dall’analisi dei contesti e delle loro storie alla ricerca sociologica sulle comunità attraverso l’immersione nei tessuti relazionali, concludendosi con la produzione materiale di oggetti-opere che testimoniano questa complessa articolazione. In quale momento situi l’attenzione più propriamente estetica? Cosa aggiunge il fattore artistico alla sovrapposizione di modalità che potremmo ascrivere ad altre discipline come la storiografia, la sociologia, l’etnografia, l’economia?
L’arte si occupa di produrre per prima cosa immagini, dotandosi di una competenza specifica di analisi e critica su questi particolari oggetti che manca alle altre discipline. Quando realizzo un progetto mi occupo di come veicolare le immagini che nascono dal dialogo con gli altri ambiti di studio. Il progetto Biomega, ad esempio, è un’indagine su come oggi vengono diffuse le informazioni nel campo alimentare, settore economico in continua crescita, dove un’abile retorica sulla biodiversità serve a far credere ai consumatori che il prodotto commercializzato abbia un’origine puramente naturale. Sono partito, quindi, dalle fotografie pubblicitarie di alimenti basilari della nostra nutrizione come il grano e il mais, il cui patrimonio genetico è stato modificato artificialmente ed è costantemente oggetto di studio da parte dei genetisti. Attualmente, le piante OGM coltivate in varie parti del mondo sono una dozzina. Tra queste, la soia, il mais, la mela e le verdure da insalata rappresentati nel lavoro. Per la stampa ho deciso di usare il cotone piuttosto che la carta per dare maggior risalto all’aspetto materico. Ho evitato, quindi, il colore riducendo la gamma cromatica ai soli nero, oro e grigio. Il marmo e il cotone hanno dato concretezza alle immagini trasfigurandone la presenza fredda e sintetica tipica dell’uso pubblicitario. La tecnica della serigrafia mi ha permesso, infine, di riflettere sul concetto di riproduzione in serie, come può essere la coltivazione in un campo, selezionando le copie serigrafiche più perfette. Questo processo di selezione ricalca le strategie di vendita nel settore agroalimentare, sopratutto nel campo della grande distribuzione.

Il progetto Biomega mi sembra emblematico. L’immagine è socialmente determinata e indagata come superficie bifronte che tiene insieme produzione ed effetti. Le società di marketing si avvalgono degli studi sulla percezione visiva per utilizzarne il funzionamento nella commercializzazione dei prodotti. La tua analisi fa propri questi studi e, allo stesso tempo, se ne distacca criticamente per recuperarli a uno scopo più nobile e orientare, così, una presa di coscienza dello sfruttamento psicologico delle immagini. Tutto questo viene compendiato, molto efficacemente, nella realizzazione delle serigrafie con doppia facciata, per illustrare, da una parte, il prodotto commercializzato e, dall’altra, il tracciato ottico di chi lo osserva. Se mi permetti di raddoppiare a mia volta la critica, vorrei chiederti che rapporto c’è, dal punto di vista del fruitore delle opere, tra gli oggetti estetici in mostra e il processo che hai seguito.
Faccio dipendere la scelta di un’immagine dalla sua capacità di veicolare tutti i processi di studio interdisciplinare in atto. Cerco sempre di rendere trasparenti i processi, anche se allo spettatore è comunque presente solo una sintesi della loro complessità. Inoltre, parti di questa complessità rimangono sullo sfondo per favorire l’efficacia simbolica nella configurazione finale del lavoro.

Al centro delle tue indagini ci sono spesso intere comunità a cui suggerisci, facendone esperienza, le forme di un proprio riconoscimento, dando voce anche agli aspetti critici denunciati al loro interno. Quando ti avvicini a queste comunità come individui i temi da trattare? Ti concentri sulle carenze identitarie, o su certe omissioni delle storie ufficiali?
Trovo che le omissioni e i motivi che le hanno generate siano più interessanti delle storie ufficiali. Da un punto di vista ideologico, alcune storie possono risultare troppo scomode per il pubblico. Vengono così alterate o nascoste dando la precedenza a visioni e narrazioni edulcorate. La mia ricerca sul tema dei monumenti, come quella di The Monument e Petrolio, parte da questi presupposti. Tra le possibili tipologie di intervento nello spazio pubblico, la realizzazione di un monumento è oggi un’operazione complessa. Perché vengono realizzati monumenti? Quali vengono realizzati e dove? Queste sono le domande da cui sono partito nel 1990. Da allora è nata una personale collezione d’immagini di varie statue collocate, nella maggioranza dei casi, in piccoli paesi d’Italia, dedicati in maniera massiccia a figure politiche attive soprattutto tra gli anni Venti e Quaranta e ad alcuni personaggi dello spettacolo protagonisti dei programmi televisivi nazionali. Solitamente questi monumenti vengono realizzati da artisti locali con materiali preziosi come il marmo e il bronzo, e in alcuni casi la produzione è sostenuta dalla Città o da altri enti pubblici. In Italia, nel dibattito sull’arte per gli spazi pubblici c’è stata una scissione notevole: da una parte vi è quella citata da critici e curatori e realizzata dagli operatori del sistema artistico, destinata a un pubblico che ha dimestichezza con i linguaggi visivi contemporanei; dall’altra, quella fatta per il pubblico generico. Questa duplicità rende il dibattito schizofrenico e opera una vera riscrittura sottile della storia reale. Ad ogni modo, il primo stimolo per un’idea progettuale proviene da un mio interesse verso un particolare tema, come appunto quello della riscrittura della storia, anche se si tratta sempre di studi legati al ruolo dell’immagine e a come questa possa essere maneggiata o manipolata.

Quali effetti hai riscontrato nelle relazioni con i tuoi oggetti di indagine?
In qualche caso ho sollevato delle criticità, prese poi in esame da altri esperti come antropologi o sociologi. Ad esempio, nel mio intervento Quarto Fuoco a Civita Castellana, dove ho composto una sorta di cannocchiale diviso in quattro porzioni realizzate con tre differenti tipi di cottura, ognuno riferito a un preciso ciclo storico della produzione della ceramica. Il cannocchiale è puntato sulla targa di un vecchio complesso industriale, oggi trasformato in un centro commerciale e quindi simbolo della trasformazione avvenuta in città. Il progetto di Civita Castellana è stato poi oggetto di studio per una tesi di laurea presso l’Università degli studi della Tuscia, firmata dalla ricercatrice Giovanna Calabrese che ha sviluppato gli aspetti economici e la storia delle residenze in Europa in rapporto al loro impatto sulle comunità.

I margini che solleciti con maggiore insistenza si trovano negli interstizi di un contesto o di una narrazione, nelle lacune di un archivio che generano visioni distorte delle realtà documentate, nelle cancellazioni storiche più o meno volontarie. Si tratta di una tipologia di azione divenuta programmatica nell’ambito delle filosofie decostruttive. Se intendiamo la società come racconto storico, come archivio di stili di vita, come contesto culturale, dove si collocano prassi artistiche come la tua? Hanno conquistato un centro nella trama del racconto? Rimangono strategicamente a margine?
Penso che le ricerche simili alla mia si trattengano ai margini, ma non credo sia dovuto a una precisa strategia. Più che altro, evitano di abbandonarsi a espressioni edulcorate, perdendo così il consenso del mercato e del pubblico di massa.


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